di Raffaella Di Meglio
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I II III |
Biografia di Vittoria
Colonna > Ischia nelle rime di Vittoria Colonna Il castello aragonese |
Vittoria
Colonna dimora sul Castello Aragonese di
Ischia quasi ininterrottamente dal 1509 al 1536. I sonetti composti
durante il soggiorno ischitano appartengono al nucleo tematico delle poesie
d’amore, opera giovanile di Vittoria, il cui corpo centrale
è costituito dalle rime in morte dello sposo Ferrante d’Avalos.
L’opera della poetessa presa a riferimento è costituita dalle
Rime, la numerazione dei sonetti qui utilizzata si basa sull’edizione
curata da Alan Bullock, Bari, Laterza, 1982.
Le Rime di Vittoria Colonna hanno una storia
editoriale alquanto complessa: la poetessa non autorizzò nessuna
stampa, le sue poesie circolavano solo attraverso uno scambio privato
di codici manoscritti inviati in dono a importanti personaggi dell’epoca.
Ciò ha reso difficoltosa anche una sistemazione cronologica delle
rime, generalmente distinte in rime amorose e rime spirituali. Tra i più
importanti manoscritti ricordiamo quello donato a Margherita di Navarra
nel 1540 (manoscritto Laurenziano Ashburnhamiano 1153), a Francesco della
Torre tra il 1540 e il 1541 (manoscritto II IX 30 della Biblioteca Nazionale
di Firenze) e l’elegante copia membranacea del 1540-1542 donata
a Michelangelo (Vaticano latino 11539). Le Rime ebbero moltissime ristampe
negli anni del Concilio di Trento e, dopo scarsa fortuna nel Seicento,
furono ristampate nel Settecento.
Apre il corpus la dichiarazione del valore terapeutico della scrittura
poetica, cercata, senza altre pretese, come sfogo e conforto al proprio
dolore, tanto profondo da impedire la dolcezza del canto (sonetto 1):
Scrivo sol per sfogar l’interna doglia
ch’al cor mandar le luci al mondo sole,
e non per giunger lume al mio bel Sole,
al chiaro spirto e a l'onorata spoglia.
Giusta cagion a lamentar m'invoglia;
ch'io scemi la sua gloria assai mi dole;
per altra tromba e più sagge parole
convien ch'a morte il gran nome si toglia.
La pura fe', l'ardor, l'intensa pena
mi scusi appo ciascun; ché 'l grave pianto
è tal che tempo né ragion l'affrena.
Amaro lacrimar, non dolce canto,
foschi sospiri e non voce serena,
di stil no ma di duol mi danno vanto.
Questa professione di umiltà poetica, unita alla
richiesta di perdono al lettore per la trascuratezza stilistica, si ispira
al sonetto di apertura del Canzoniere di Petrarca. Quella sorta
di avvertimento iniziale sull’incapacità di celebrare e glorificare
degnamente il suo bel Sole, il "tu" della raccolta,
suona come una preterizione ed anticipa la predominante tematica amorosa
delle Rime, anch’essa di stampo petrarchesco, ispirata
da una passione esclusiva ed ideale che sopravvive alla morte.
Le Rime di Vittoria Colonna sono infatti improntate al petrarchismo,
il genere letterario più diffuso nel XVI secolo, tanto da essere
una vera e propria moda e da assumere anche una funzione di promozione
sociale e culturale, favorendo e consolidando l’affermazione
della donna nella società e nell’ambiente culturale del Cinquecento.
Lo dimostra la presenza di altre poetesse in questo secolo: Gaspara Stampa,
Veronica Gambara, Isabella Morra, Veronica Franco, Tullia d'Aragona; e
lo conferma Giorgio Vasari che, nel capitolo delle sue Vite (edizione
del 1550) dedicato alla scultrice bolognese Properzia De' Rossi, dopo
aver citato esempi passati di donne «riuscite eccellentissime
e più che famose» in varie arti, conclude: «Ma
certo in nessun'altra età s'è ciò meglio potuto conoscere
che nella nostra, dove le donne hanno acquistato grandissima fama, non
solamente nello studio delle lettere, com'ha fatto la Signora Vittoria
del Vasto, la signora veronica Gambara, la Signora Caterina Anguisola
la Schioppa, la Nugarola e cent'altre, sì nella volgare, come nella
latina e nella greca lingua, dottissime, ma eziandio in tutte l'altre
facultà».
Nei sonetti di Vittoria Colonna si ritrovano dunque le convenzioni della
poesia petrarchista.Come nel Canzoniere di Petrarca, così nei versi
della poetessa rari sono gli elementi concreti, realistici, descrittivi
e narrativi; non ci sono accenni nemmeno ai particolari fisici di Ferrante,
che è una figura ancora più evanescente di Laura, interamente
idealizzata, quasi soprannaturale, pertanto mai nominata e cantata sempre
con l’appellativo mio bel Sole o mio bel lume.
Anche il paesaggio ischitano appare stilizzato: le albe, i tramonti, il
mare, gli scogli, le onde, i fiori di cui la poetessa amava circondarsi,
la torre, il monte più volte citato (che allude all’isola
nel suo complesso o, meno probabilmente, al monte Epomeo) perdono la loro
concretezza materiale, la loro esteriorità, per diventare elementi
di un mondo intimo, lo specchio delle situazioni mutevoli del suo cuore:
sono di volta in volta lo sfondo al dolore inconsolabile per l’assenza
dello sposo, al ricordo dei suoi ritorni gloriosi e dei primi tempi felici,
ai suoi sogni o ai suoi aneliti religiosi. Così, lo scoglio
(il Castello Aragonese) ora è “caro”, ora “orrido
e solo”, ora “alto”, il mare tranquillo o turbato, l’intera
natura ora ostile, ora amica.
Nel sonetto 9 delle Rime Amorose la
bellezza della natura circostante compare solo come ricordo:
Oh che tranquillo mar, che placide onde
solcavo un tempo in ben spalmata barca !
Di bei presidi e d’util merce carca
l’aer sereno avea, l’aure seconde […] (vv. 1-4)
Già nelle terzine finali il paesaggio cambia volto (vv.9-14):
L’aversa stella mia, l’empia fortuna
scoverser poi l’irate inique fronti
dal cui furor cruda procella insorge ;
venti, piogge, saette il ciel aduna,
mostri d’intorno a divorarmi pronti,
ma l’alma ancor sua tramontana scorge.
Nella famosa Pistola de la illustrissima signora Marchesa di Pescara ne la rotta di Ravenna, “Eccelso mio signor, questa te scrivo” (n.1 delle Rime amorose disperse in Bullock), indirizzata al marito fatto prigioniero insieme al padre Fabrizio Colonna dai francesi dopo la battaglia di Ravenna del giorno di Pasqua 11 aprile 1512, tra i pochissimi versi scritti durante la vita dello sposo, giudicati tra i più belli del suo canzoniere, Vittoria sfoga il suo stato d’animo di donna triste e angosciata per le frequenti assenze del marito. Qui gli elementi naturali appaiono come portatori di foschi presagi (vv.58-72):
[…] ad un punto, il scoglio dove posa
il corpo mio, che già lo spirto è teco,
vidi coprir di nebbia tenebrosa,
e l’aria tutta mi pareva un speco
di caligine nera ; il mal bubone
cantò in quel giorno tenebroso e cieco.
Il lago a cui Tifeo le membra oppone
boglieva tutto, oh spaventevol mostro!
il dì di Pasca in la gentil stagione ;
era coi venti Eulo al lito nostro,
piangeano le sirene e li delfini,
i pesci ancor ; il mar pareva inchiostro ;
piangean intorno a quel i dei marini,
sentend’ad Ischia dir: «Oggi, Vittoria,
sei stata di disgrazia a li confini […]»
Bellissima
la descrizione della tempesta premonitrice abbattutasi improvvisa sullo
“scoglio” in pieno giorno, uno dei pochi brani che si possono
definire realistici, tanto sono vivi i particolari descrittivi del paesaggio
ischitano. Compare anche l’immagine del gigante Tifeo, ricorrente
sia nei versi di Vittoria Colonna che nelle opere dei poeti del cenacolo
umanista nato intorno alla sua figura. Si tratta del gigante ribelle che,
secondo il mito greco, per punizione di Giove giace incatenato sotto l’isola
di Pithecusae (il nome greco di Ischia), eruttando fiamme ed acque calde
e provocando terremoti con i suoi movimenti.
L’epistola, modellata sulle Heroides ovidiane e su reminiscenze
omeriche, ma davvero sentita e sincera, continua con una polemica contro
gli uomini che vanno in guerra alla ricerca di gloria e fama senza curarsi
di lasciare le loro donne a “serbare il letto abbandonato e solo”,
digiune del loro amore. Incoraggiata da alcuni storici esempi (Pompeo
e Cornelia, Catone e Marzia), cosciente del suo valore di donna e moglie
e della forza del suo amore, protesta:
[…]
Se vittoria volevi io t’era a presso,
ma tu, lasciando me, lasciasti lei
[…] (vv.91-92)
Dopo la morte di Ferrante, avvenuta nel 1525 per le ferite riportate durante la battaglia di Pavia contro Francesco I di Francia, le rime acquistano un tono più austero. Sono proprio queste liriche ispirate dalla perdita del “Bel Sole” e dedicate al culto della sua memoria, a suscitare l’ammirazione di Ludovico Ariosto che le dedica alcune stanze nell’Orlando Furioso (canto XXXVII, st.16 e segg.):
Vittoria è il nome; e ben conviensi a nata
fra le vittorie, ed a chi, o vada o stanzi,
di trofei sempre e di trionfi ornata,
la vittoria abbia seco, o dietro o innanzi.
Questa è un’altra Artemisia, che lodata
fu di pietà verso il suo Mausolo ; anzi
tanto maggior, quanto è più assai bell’opra,
che por sottoterra un uom, trarlo di sopra. (st.18)
La perdita di Ferrante è resa ancora più amara dalla mancanza di un erede naturale, ma Vittoria rivendica una maternità spirituale, “platonica” sul cugino Alfonso del Vasto, già designato erede, ragazzo ribelle ma intelligente alla cui educazione si dedica lei stessa, incoraggiandone la naturale predisposizione alla poesia:
[…]
non può il frutto marcir, né langue il fiore
del bel giardino ov’io piangendo godo.
Sterili i corpi fur, l’alme feconde ;
il suo valor qui col mio nome unito
mi fan pur madre di sua chiara prole,
[…]
(sonetto 30 Quando Morte fra noi disciolse il nodo,
vv.7-11)
Tutto, intorno, le appare ostile da quando quel Sol che d’ogn’intorno sgombrò le nubi e fe’ qui chiaro giorno (sonetto 19, v.3) l’ha lasciata ristretta in loco oscuro, orrido e solo, cieca al fiorire della natura intorno a lei (sonetto 13, v.9). L’alma rinchiusa in questo carcer rio desidera soltanto ricongiungersi con la luce della sua vita (sonetto 29, v.9) perché ora il sole non ha più luce:
Parmi che 'l sol non porga il lume usato,
né che lo dia sì chiaro a sua sorella;
non veggio almo pianeta o vaga stella
rotar lieto i bei rai nel cerchio ornato.
Non veggio cor più di valor armato,
fuggito è 'l vero onor, la gloria bella
nascosta e le virtù giunte con ella,
né vive in arbor fronde o fiore in prato.
Veggio turbide l’acque e l’aer nero;
non scalda il foco né rinfresca il vento;
tutti han smarrita la lor propria cura.
Da l'or che 'l mio bel Sol fu in terra spento
o è confuso l'ordin di natura
o 'l duolo ai sensi miei nasconde il vero.
(sonetto 32)
[…]
e perch’io veggia fonte o prato adorno
di leggiadre alme, o pargoletti amori,
dotti spirti a pie’ di sacri allori
con chiare note aprir l’aere d’intorno ;
non s’allegra il cor tristo, o punto sgombra
de la cura mortal che sempre il preme,
sì le mie pene son tenaci e sole;
[...]
(sonetto 12 delle Rime amorose disperse, Perché
del tauro l'infiammato corno, vv. 5-11)
La sua vita è come una nave in balia del vento e delle onde:
Provo tra duri scogli e fiero vento
l’onde di questa vita in fragil legno ;
l'alto presidio e 'l mio fido sostegno
tolse l'acerba morte in un momento.
Veggio il mio male e ‘l mio rimedio spento,
il mar turbato e l’aer d’ira pregno,
d’atra tempesta un infallibil segno,
e 'l valor proprio al mio soccorso lento.
Non ch’io sommerga in le commosse arene
temo, né rompa in perigliose sponde,
ma duolmi il navigar priva di spene.
Almen se morte il ver porto m’asconde,
mostrimi il falso suo, ché chiare e amene
ne parran le sue irate e turbide onde.
(sonetto 53)
La metafora della nave ritorna nel sonetto 28 Già desiai che fosse il mio bel Sole:
[…]
Così il bel lume de’ suo’ santi ardori
guidi mia nave in queste turbide onde,
tra scogli e tra sirene empie nimiche. (vv.12-14)
e nella canzone 89 Mentre la nave mia, lungi dal porto (vv.1-3):
[…] la nave mia, lungi dal porto,
priva del suo nocchier che vive in Cielo,
fugge l’onde turbate in questo scoglio,
[…]
Confrontandosi con altre illustri eroine d’amore (Penelope, Laodamia, Porzia), Vittoria conclude:
Canzon, fra’ vivi qui fuor di speranza
va’ sola, e di’ ch’avanza
mia pena ogn’altra, e la cagion può tanto
che m’è nettar il foco, ambrosia il pianto. (vv.73-76)
Ancora più doloroso è il rivedere quei luoghi un tempo rischiarati dai ritorni gloriosi di Ferrante sull’isola (sonetto 61, vv.1-4):
Qui fece il mio bel lume a noi ritorno,
di regie spoglie carco e ricche prede ;
ahi con quanto dolor l’occhio rivede
quei lochi ove mi fea già chiaro il giorno !
[…]
E triste è il risveglio all’apparire del sole dopo la breve pausa che il sonno ha concesso alla sua sofferenza (sonetto 68, vv.1-6):
Quando il gran lume appar ne l’oriente,
che ‘l nero manto de la notte sgombra,
e ‘l freddo gel ch’alor la terra ingombra
dissolve e scaccia col suo raggio ardente,
de l’usate mie pene, alquanto lente
per l’inganno del sonno, me ringombra ;
[…]
E se anche intorno fiorisce la bella stagione, l’unica, vera primavera per lei è dentro il suo cuore perché è il suo Sole a produrla (sonetto 33):
Nel fido petto un’altra primavera,
d’altri bei fiori e d’altre frondi adorna,
produce quel mio Sol che sempre aggiorna
dentro il mio cor da la più alta spera.
Non cangia il tempo sua luce sincera,
né s'asconde la notte e 'l dì ritorna;
ma in quello e 'n questo albergo ognor soggiorna,
qui coi bei rai, là con la forma intera.
Son i soavi fior gli alti penseri
ch’odoran lieti per quell’alma luce
che sol li crea, nudrisce, apre e sostiene ;
le frondi che fan vivi i lumi veri
è la fondata in lor mia certa speme
di gir felice ov'ei lieto riluce.
Solo il ricordo delle glorie del suo Signore dà tregua e consolazione al suo sconforto e rinnova lo splendore dell’isola, un tempo “sì bel soggiorno”:
Vid’io la cima, il grembo e l’ampie
falde
del monte alter che ‘l gran Tifeo n’asconde
fiammeggiar liete, e le vezzose sponde
del lito bel di lumi ornate e calde
per le tue glorie, […]
(sonetto 3 delle Rime amorose disperse, vv.1-5)
[…]
Col sen carco di gigli e di viole
stava la terra, e ‘l mar tranquillo e i venti,
quando il bel lume mio nel mondo venne.
(sonetto 16 delle Rime Amorose, Fiammeggiavano
i vivi lumi chiari, vv.12-14)
L’uso dell’imperfetto relega irrimediabilmente nel passato il suo tempo felice:
Quanti dolci pensieri, alti desiri,
nudriva in me quel Sol che d’ogn’intorno
sgombrò le nubi e fe’ qui chiaro giorno
mentre appagò sua vista i mie’ martiri !
Soave lacrimar, grati i sospiri
mi rendea il sereno sguardo adorno,
mio vago lume e mio sì bel soggiorno
ch’or scorgo tenebroso ovunque io miri.
[…]
(sonetto 19 delle Rime Amorose, vv.1-8)
Quel Sol, che m’arde ancor, spesso vid’io
di sua propria virtude schermo farsi
contra Fortuna, e ne l’alta ritrarsi
e faticosa torre al tempo rio,
e, del solo d’onor caldo desio,
sicuro da le insidie ascose, armarsi,
e, ne’ perigli di consiglio scarsi,
se stesso e ogni timor porre in oblio.
[…]
(sonetto 35 delle Rime amorose disperse, vv.1-8)
A tratti è la mente che dissolve le nebbie della sofferenza immaginando di vedere dal Castello lo sposo-Elia ritornare splendente dal cielo. Per una volta lo scoglio non le appare più tanto orribile (sonetto 13 delle Rime amorose disperse, vv.1-4, 9-14):
Quando io dal caro scoglio guardo intorno
la terra e ‘l mar, ne la vermiglia aurora,
quante nebbie nel ciel son nate alora
scaccia la vaga vista, il chiaro giorno.
[…]
Per l’exempio d’Elia non con l’ardente
celeste carro ma col proprio aurato
venir se ‘l finge l’amorosa mente
a cambiarmi ‘l mio mal doglioso stato
con l’altro eterno; in quel momento sente
lo spirto un raggio de l’ardor beato.
Ma, quasi pentita per questa momentanea distrazione, subito rincalza (sonetto 15 delle Rime amorose disperse, vv.1-4):
Vivo su questo scoglio orrido e solo
quasi dolente augel che ‘l verde ramo
e l’acqua pura aborre, e a quelli ch’amo
nel mondo ed a me stessa ancor m’involo
[…]
Il passare degli anni non allevia il suo dolore, ma le dà il merito della fedeltà, trasformandola, come la videro Ariosto e Bembo (“donna d’ogni virtute intero esempio,/Nel cui bel petto, come in sacro tempio,/Arde la fiamma del pudico amore”), in un simbolo di virtù femminile, martire dell’amore, modello di vedovanza fedele. La fedeltà allo sposo significa fedeltà anche allo “scoglio” da lui amato (sonetto 29 delle Rime amorose disperse, Sperai che 'l tempo i caldi alti desiri, vv.9-14):
[…]
D’arder sempre piangendo non mi doglio ;
forse avrò di fedele il titol vero,
caro a me sovr’ogn’altro eterno onore.
Non cangerò la fe’ né questo scoglio
ch’al mio Sol piacque, ove fornire spero
come le dolci già quest’amare ore.
La sua resistenza nel dolore e nella fede è come quella del ginepro che non si lascia spezzare dal vento (sonetto 25 delle Rime amorose disperse, vv.1-4, 12-14):
Quel bel ginepro, cui d’intorno cinge
irato vento, né per ciò le foglie
sparge né disunisce, anzi raccoglie
la cima i rami, e poi se stesso stringe,
[…]
A quell’arbor Natura insegna a’ fieri
nimici contrastare, e a me la molta
ragion vuol che nel mal cresca la fede.
Il desiderio più volte cantato di raggiungere l’amato
sposo nel suo alto e divin stato, nelle Rime spirituali
si trasforma nella ricerca di un’unione ideale con Cristo. L’elemento
religioso e spirituale, dapprima ancora legato all’amore spiritualizzato
per Ferrante, diventa dunque desiderio di purificazione; la tematica amorosa
lascia il posto a quella religiosa.
Il paesaggio ischitano pare ritornare a fare da sfondo in alcune liriche:
si trasfigura in una sorta di primavera celeste per la nascita di Gesù
nel sonetto 23 Aprasi il Ciel, e di Sue grazie tante,
vv.5-11:
[…]
Soave primavera orni ed ammante
la terra, e corran puro nettar l’onde ;
copra di gemme il mar l’altere sponde,
ed ogni scoglio sia ricco diamante
per adornar il giorno aventuroso
che ne die’ il parto eternamente eletto
per apportar vera salute a noi.
[…]
Il suo legno adesso può affrontare con fede sicura quel mare in tempesta (sonetto 82; cfr sonetti 53 e 89 delle Rime amorose):
Quando il turbato mar s’alza e circonda
con impeto e furor ben fermo scoglio,
se saldo il trova il procelloso orgoglio
si frange, e cade in se medesma l’onda ;
tal io, s'incontra a me vien la profonda
acqua mondana irata, come soglio
levo al Ciel gli occhi, e tanto più la spoglio
del suo vigor quanto più forte abonda.
E se talor il vento del desio
ritenta nova guerra io corro al lido,
e d’un laccio d’amor con fede attorto
lego il mio legno a quella in cui mi fido
viva pietra, Gesù, sì che quand’io
voglio posso ad ognor ritrarmi in porto.
La Vergine diventa il modello da seguire per appagare il suo desiderio di trascendere gli interessi terreni (sonetto 121):
Donna accesa animosa, e da l’errante
vulgo lontana, in soletario albergo
parmi lieta veder, lasciando a tergo
quanto non piace al vero eterno Amante,
e, fermato il desio, fermar le piante
sovra un gran monte; ond'io mi specchio e tergo
nel bello exempio, e l'alma drizzo ed ergo
dietro l'orme beate e l'opre sante.
L’alta spelonca sua questo alto scoglio
mi rassembra, e ‘l gran sol il suo gran foco
ch’ogni animo gentil anco riscalda ;
in tal pensier da vil nodo mi scioglio,
pregando lei con voce ardita e balda
m'impetri dal Signor appo sé loco.
La critica più recente ha dibattuto sulle rime spirituali, scorgendovi alcuni filoni eterodossi della religiosità del tempo, come la mistica quietista. E proprio queste rime alimentano la ben nota profonda amicizia con Michelangelo, durata per tutti gli ultimi quindici anni della vita di Vittoria. L’artista realizzò quattro disegni per la poetessa, La Crocifissione, la Pietà, Cristo e la Samaritana e un perduto Noli me tangere. Nella Vita a lui dedicata da Vasari si legge: « [...] Ha meritato ancora Michele Agnolo che la divina Marchesa di Pescara gli scriva, et opere faccia di lui cantando, et egli a lei un bellissimo disegno d'una Pietà mandò da lei chiestoli [...]». Nelle rime che il Buonarroti dedica alla sua Musa ispiratrice, ella è celebrata quale donna esemplare e divina, capace di modellare l’animo dell’artista come l’artista dà forma al sasso. Sublimata dalla morte, Vittoria gli appare l’anima perfetta, l’unica forma della bellezza, una bellezza spirituale, strumento di perfezionamento, di elevazione a Dio:
Per non s’avere a ripigliar da tanti
quell’insieme beltà che più non era,
in donna alta e sincera
prestata fu sott’un candido velo,
ch’a risquoter da quanti
al mondo son, mal si rimborsa il cielo.
[…]
Né metter può in oblio,
benché ‘l corpo sie morto,
i suoi dolci, leggiadri e sacri inchiostri.
(Madrigale n. 265, vv.1-6, 11-13)
Bibliografia
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La Padula Silvia, Vittoria Colonna, una biografia minima, Imagaenaria
Edizioni Ischia, 1998.
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Squarotti Barberi Giorgio, Michelangelo e Vittoria Colonna, in Michelangelo
e Dante, catalogo, Electa, 1995.
Campi Emidio, Michelangelo e Vittoria Colonna. Un dialogo artistico-teologico
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1994.
Nobbio Mollaretti Raffaela, Vittoria Colonna e Michelangelo, Firenze libri,
1990.
Pagano Sergio M. - Ranieri Concetta, Nuovi documenti su Vittoria Colonna
e Reginald Pole, Archivio Segreto Vaticano, 1989.
De Maio Romeo, Donna e Rinascimento. Milano: Arnoldo Mondadori Editrice,
1987.
Colonna Vittoria, Rime, Laterza, 1982.
Patrizi Giorgio, Colonna Vittoria, in Dizionario biografico degli Italiani,
vol. 27, pp.448-457, Enciclopedia Treccani, 1982.
Therault S., Le Cénacle humaniste de la Renaissance autour de Vittoria
Colonna châtelaine d’Ischia, Paris, Didier, 1968.
Bernardy A. Amy, Vittoria Colonna, Felice le Monnier Editore, 1927.
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