di Reno Bromuro
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«Quanto v'è di perfetto,
in una civiltà diventata essa stessa natura,
l'immobilità terribile e affascinante del sorriso di Dio,
avvolge Sanfrediano, e lo esalta».
Vasco
Pratolini nacque a Firenze il 13 ottobre
1913 nel quartiere popolare di via de' Magazzini. Rimasto orfano di madre a due anni, il padre si risposa
e lui trascorre molto tempo con i nonni finché diviene operaio
tipografo. Alterna il lavoro con lo studio dei classici: Dante,
Dickens, Manzoni. In seguito si orienta
verso la prosa d'arte, ma si ammala di tubercolosi e trascorre due anni
in sanatorio.
Nel 1934 conosce Elio Vittorini che rende più
pressante in lui la necessità di un impegno ideologico antifascista.
Dal 1937 al 1947, collabora a Letteratura e
dirige con Alfonso Gatto la rivista Campo
di Marte, soppressa dal fascismo dopo solo un anno di vita.
Si trasferisce a Roma e nell'ambiente della
Resistenza, matura la sua vocazione realistica
cui ha fede fino alla fine avvenuta a Roma nel 1991.
Pratolini ha avuto un'esperienza umana diversa
da quella del letterato italiano di estrazione borghese, con un regolare
corso di studi alle spalle. Per questo il suo esordio narrativo è
contrassegnato dalla tentazione a recuperare sul filo della memoria, situazioni
e personaggi connessi con la sua realtà biografica, incentrando
il credo sul concetto di partecipazione popolare alla cultura. Testimone
di un grande passaggio storico-letterario, la morte del realismo degli
anni Trenta e la nascita del Neorealismo
post-bellico, acquista una propria consapevolezza intellettuale. E' convinto
di poter colmare il divario esistente fra il popolo, gli intellettuali
e la realtà storico-sociale. La ricerca verso una matrice razionalista
lo porta, inevitabilmente, a scontrarsi con l'irrazionalità fascista.
La letteratura diviene, sotto questo aspetto un'arma di difesa, un rifugio
dalle angosce del quotidiano.
La sua finalità è divenire popolo, riconoscersi e fondersi
con lui. «Nei romanzi giovanili vi è un filo conduttore:
la paura della morte e il tentativo di esorcizzarlo raccontandola agli
altri, cercando di descriverla a mente fredda. Le parole ricorrenti sono:
«Freddo, Buio, Liberarsi, Trovarsi».» I Suoi personaggi
amano e odiano con la stessa intensità, per mezzo dell'odio raggiungono
il rancore che non permette di amare, ma solo di soffrire. In queste pagine
lo scrittore scompare, diviene voce degli umili e degli indifesi, diviene
storia - cronaca egli stesso.
Mentre osserva i gesti e le parole, le abitudini della gente di quartiere
che poi avrebbe fatto parlare nei suoi romanzi, va formando piano piano,
da autodidatta, la propria cultura letteraria. Letture disordinate, che
rispondevano a un’unica vocazione: diventare scrittore.
Ha il desiderio di raccontare. E incontra chi vuole credere in lui. Tramite
il pittore Ottone Rosai, inizia a scrivere di politica
sulla rivista «Il Bargello», ma
è soprattutto Elio Vittorini che lo porta dalla
politica alla letteratura, anche se, sia letteratura sia politica. erano
già presenti nella rivista «Campo di Marte»,
della quale è redattore (come ho già accennato) assieme
al poeta Alfonso Gatto, e che è soppressa dopo
un anno dal regime fascista. «Pratolini è un contestatore
sentimentale che la propria cronaca personale e dei propri ricordi è
in grado di costruire, fin dalle prime esperienze narrative, storie corali
dove il «noi» oltrepassa l’«io» e si accompagna
con i rapporti affettivi una progressiva presa di coscienza della classe
proletaria e popolare».
Il tappeto verde,Le amiche,Il
Quartiere,Cronaca familiare,Cronache
di poveri amanti, scritti negli anni Quaranta, sono opere
animate dall’amore, da legami affettivi con la propria gente; da
un dolore privato, come la scomparsa del fratello, in Cronaca
familiare, «è l’espandersi di un
dolore collettivo e, soprattutto, una minaccia del Male incombente, secondo
una visione della vita sempre tesa a una sorta di manicheismo, con un’ingiustizia
da riscattare in nome del Bene e una liberazione dal Male nel mondo».
E’ nato il narratore del Neorealismo, del Populismo,
del Verismo,
del Naturalismo.
Quanto di queste correnti appartiene Pratolini? «La storia,
come direbbe Benjamin, la si ascolta tra i mercati, nella realtà
delle strade, nelle sue domande, nelle sue paure che non sono più
qualcosa di astratto o artificioso, ma sono muscoli e nervi che si muovono,
che tremano e corrono, a difendersi, a liberarsi, a trovarsi».
Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, Pratolini ha già riscosso una
certa fama con Cronache di poveri amanti, che
gli fa conquistare il premio Libera Stampa e
ha avuto una breve esperienza giornalistica a Milano.
Il ricordo di Firenze lentamente sfuma. Decide
allora di scrivere la trilogia Una storia italiana:
un affresco storico che riunisce il mondo operaio Metello, il mondo borghese
Lo scialo e quello degli intellettuali Allegoria e derisione. Una storia
che è in seguito definita dai critici ancora «troppo fiorentina»
e ancora «troppo poco italiana».
L’opera
è ambientata nella Firenze di fine secolo,
al tempo delle prime lotte operaie. E’ la storia di un giovane contadino
inurbato, che prende parte attiva alle agitazioni sindacali, pur dedicandosi,
contemporaneamente, ad appassionate esperienze amorose. Il romanzo da
luogo a un clamoroso caso letterario: alcuni vedono in esso la fase di
sviluppo dal neorealismo al realismo, altri invece lo riconducono a una
matrice decadentistica.
Afferma G. Luti che si tratta di «un grande
affresco storico intriso di interessi ideologici, sociali, e morali: dalla
lotta per il riscatto sociale del mondo operaio, in Metello, attraverso
il quadro della società borghese durante il fascismo con Lo scialo,
fino alla crisi delle ideologie nel dopoguerra consegnata alle pagine
inquiete di Allegoria e derisione»
Metello rappresenta il periodo che va dal 1875 al 1902
attraverso le proprie vicende, cioè di Metello Salani, figlio di
un anarchico, il quale rimasto orfano, appena quindicenne è a Firenze
e trova lavoro come manovale. Il narratore lo concepisce come eroe positivo.
Metello attraverso le esperienze di lavoro acquista consapevolezza politica
e si impegna attivamente nelle lotte operaie, nel 1898 è in carcere
per aver partecipato a una manifestazione di protesta. Il romanzo culmina
con la descrizione del lungo sciopero dei muratori del 1902, in occasione
del quale il protagonista viene di nuovo arrestato. Alla progressiva consapevolezza
politica del protagonista: il narratore unisce l'educazione sentimentale
l'amore per Ersilia, figlia di un anarchico morto per
un incidente sul lavoro, il matrimonio nel 1900, uno sbandamento per una
banale avventura proprio durante lo sciopero del 1902, il riconquistato
equilibrio familiare.
Subito
dopo la pubblicazione del libro, si accende un vivace dibattito, specialmente
fra quei critici che per ragioni di militanza politica, parteggiano per
una narrativa neo-realistica. Alcuni sottolineano il fatto che con questo
romanzo Pratolini tende ad una rappresentazione della società italiana
nei suoi conflitti di classe, nella varietà dei suoi ambienti ben
più ampia di quanto non avesse fatto prima; altri ritengono che
tale tentativo non è riuscito.
Carlo Muscetta - un critico che si è sempre distinto
per la perentorietà dei suoi giudizi e per il rigorismo ideologico
- «si esprime con particolare severità sul Metello, lamentando
che nella rappresentazione del protagonista Pratolini proceda su due parallele
che non si incontrano, cioè rappresenti ora la dimensione sentimentale
di Metello che sfarfalla dietro le donne, ora invece la sua dimensione
operaia e la progressiva acquisizione di una coscienza di classe e di
una consapevolezza politica».
Si può verificare la validità o meno di questo giudizio
con una puntuale lettura del romanzo; voglio però sottolineare
che nel testo proposto i due piani, le due dimensioni si fondono perfettamente:
per quanto riguarda specificamente questo problema, le storie sono a nostro
giudizio fra le più felici del Metello. Esperienza sentimentale
e maturazione politica si integrano a vicenda, come in tutta la narrativa
di Pratolini: lo sbocciare degli amori giovanili si cala in una solida
rappresentazione dei fermenti e delle lotte di una categoria operaia in
un preciso clima storico.
Metello è
la storia dell’educazione politica e sentimentale di un giovane
proletario al tramonto dell’età umbertina di fine Ottocento,
quella delle prime lotte sindacali e della crescita organizzativa del
movimento operaio. Entrambi i percorsi esistenziali del protagonista risultano
difficili e tormentati: sul versante privato si lascia trasportare dalla
sua indole di donnaiolo, intrecciando una relazione adulterina con una
vicina di casa, sul versante politico matura il passaggio al socialismo
dopo l’abbandono dell’anarchismo trasmessogli dal padre. Metello
è, soprattutto, un istintivo e un generoso, incapace di controllare
il suo temperamento combattivo ed irruente, che si espone in prima persona
per l’affermazione delle idee in cui crede. Per questo la sua promessa
finale alla moglie Ersilia di non lasciarsi più
coinvolgere in situazioni turbolente non è molto credibile: rimane
la convinzione che sarà alla testa delle prossime lotte operaie.
Lo sfondo storico è quello dell’Italia agli albori
del Ventesimo secolo, con la crisi dell’anarchismo
e il consolidarsi dell’egemonia socialista presso una classe operaia
in pieno sviluppo e dove all’autoritarismo reazionario e antipopolare
del crispismo si va sostituendo la linea riformista e liberale di Giolitti.
Quest’opera ci presenta un Pratolini nuovo ma anche con una continuità
di fondo come è palese e rafforzato in Le ragazze di
Sanfrediano, in cui anche se rimane l'ambiente, l'ottica
è diversa. E in ogni caso costante è l'attaccamento alla
sua terra. Dal punto di vista letterario i legami sono vari: con l'ermetismo
fiorentino, Mario Pratesi de L'eredità,
il ligure fiorentino Jahier, Tozzi letto
in chiave sociologica più che linguistica. E il filone francese
dei romanzi di Alain-Fournier, Charles-Luois
Philippe ecc.
Il
quadro storico dell'Italia dopo la prima guerra mondiale si presenta,
ricco di importanti trasformazioni che riguardano soprattutto la struttura
economica e sociale. Senza dubbio Metello non è un eroe; è
un uomo comune che prende coscienza dei propri diritti e delle proprie
responsabilità da cui spesso si sente gravato, dal momento che
i suoi compagni di lavoro lo considerano un leader. All'ingegnere, che
durante lo sciopero vuole trattare con lui, perché lo ritiene l'operaio
piú intelligente del suo cantiere, il giovane stesso replica: «Ecco!
Sempre la stessa storia! Voi mi attribuite un'importanza che io non ho.
Io non comando niente, non ho forzato la volontà di nessuno».
Era questa l'intenzione dell'autore, come sottolineano il Pazzaglia: «Pratolini
ha diseroicizzato la figura del protagonista, che conosce anch'egli deviazioni
e sbandamenti», e il Pampaloni: «Del personaggio Metello s'è
discusso molto: se sia eroe positivo, tipico o incarni,come vuole l'autore,l'assenza
dell'eroe». Lo stesso Muscetta, del resto,
riconosce che Metello «è stato concepito proprio con
l'incubo dell'eroe positivo, con la preoccupazione di non volerlo rappresentare
secondo questa immagine abusata e convenzionale», anche se
poi non riconosce la realizzazione dell'intento.
Io sono d’accordo con Pazzaglia, invece, secondo
il quale l'autore «non ha voluto comporre un romanzo agiografico»,
ma sottolineare l'inscindibile intreccio tra la vita pubblica e quella
privata del muratore. Metello a mio avviso non sarebbe un personaggio
completo se accanto alla sfera politica non fosse stata trattata anche
quella sentimentale; per questo Camera del Lavoro e camera da
letto sono aspetti ugualmente importanti che si fondono insieme.
La coralità, invece, ha caratterizzato anche Il Quartiere,
la storia corale di ragazzi e ragazze di un quartiere periferico di Firenze,
colti nel loro passaggio dall’adolescenza alla prima giovinezza.
Le tecniche di narrazione sono state invece altre nelle opere precedenti:
in Cronaca di poveri amanti, ad esempio, Pratolini narra le vicende in
terza persona, oggettivamente, e poi interviene «spesso con
dei commenti personali che, a volte, stridono con il racconto vero e proprio;
e in Cronaca familiare la tecnica è quella del dialogo affettuoso
con il fratello morto».
Particolarmente interessanti sono alcune considerazioni riportate nella
prefazione a Lo scialo curata da Ruggero
Jacobbi, che scrive: «...Pratolini, nell'affanno di
una prima stesura, era giunto molto avanti nel suo cammino, quando sentì
il bisogno di metter mano a un prologo, a un antefatto operaio di questo
panorama borghese. [...] Pratolini lasciò a mezzo quel che oggi
è Lo scialo per scrivere un prologo, un antefatto, quel che oggi
è Metello...»
Se dunque consideriamo le due opere secondo un rapporto di causa effetto,
non si pone affatto il problema della deviazione e, per di piú,
si coglie meglio il ruolo di alcuni personaggi che compaiono in ambedue
le opere, dando un senso di consequenzialità e di unità
alla trilogia.
I LUOGHI DELLA STORIA E DELLA VITA DELL’AUTORE
Ho visitato Firenze, con un carissimo amico Poeta Ennio Velardi seguendo più la toponomastica poetica che quella reale, avvinti dalla città più ricca d’arte, e dal richiamo continuo e pressante del turismo, non di svago ci ha portato da un punto all’altro seguendo l’itinerario della memoria.
IL CESTELLO IN SAN FREDIANO
Il Cestello è stata edificata fra il 1680 ed il 1689 su progetto dell'architetto Cerutti, arricchita dalla bella cupola su tamburo scandito da lesene, ad opera di Antonio Maria Ferri. Alla sua sinistra vi è un austero campanile barocco. L'interno è a croce latina con cappelle laterali che si aprono sulla navata, decorate a stucco e pittura e fummo, secondo quanto mi riferì l’amico, dove Pratolini ebbe l’idea del «Metello».
SAN SALVATORE AL MONTE
Salendo la lunga scalinata che per il Monte
alle Croci porta alla chiesa di San Salvatore
al Monte, così come si vede oggi, fu realizzata da
Simone del Pollaiolo detto il Cronaca, fra il 1499 ed
il 1504. Le basi sono, probabilmente, quelle di un edificio costruito
fra il 1490 ed il 1498. Nel 1419,forse si trovava sullo stesso luogo di
una chiesa francescana, oggi identificabile con il cappellone, al fianco
della chiesa. La facciata della chiesa, molto semplice, presenta superfici
intonacate, interrotte solo dal portale e dalle finestre a timpano. Sul
frontone spicca l'arme dell'Arte di Calimala che ha fatto
realizzare la chiesa.
L'interno a una sola navata è fiancheggiata da cappelle. Le cappelle
e il presbiterio fanno parte dell'ampliamento realizzato dal Cronaca.
Le pareti sono in pietra forte e per la prima volta all'interno di una
chiesa sono utilizzati i due ordini sovrapposti di paraste. E’ rimasto
poco della decorazione rinascimentale, fatta eccezione delle vetrate.
Le tele presenti, nella maggior parte delle cappelle, hanno diversa provenienza
fra il 1600 ed il 1700. Sopra la porta di accesso al cappellone è
collocata una Deposizione in terracotta di
Giovanni della Robbia.
SANTA MARIA DEL CARMINE
Per costruire questa magnifica chiesa sono stati impiegati
centosettantotto anni; conserva sui fianchi tracce dell'originaria struttura
romanico-gotica. Nel 1771 è stato in parte distrutta da un incendio
che ha risparmiato l'esterno, la sagrestia e le cappelle Brancacci
e Corsini. E’ stata rifatta interamente
da Ruggieri e Mannaioni, che la ultimò
nel 1782.
L'interno
settecentesco, a croce latina, presenta un'unica navata. In fondo al braccio
destro della crociera si apre la famosa Cappella Brancacci
del 1386. Restaurata recentemente è stata separata dal resto della
chiesa per limitare il numero dei visitatori per volta, che con il respiro
aumentano l'umidità dell'aria che rischia di danneggiare gli affreschi,
oltre che per evitare a coloro che entrano di disturbare il servizio religioso.
Nella cappella si entra attraverso un bel chiostro e, salendo le scale,
ci si trova faccia a faccia con i capolavori di Masaccio
raffiguranti scene della vita di San Pietro
e del peccato originale.
Felice Brancacci commissiona a Masolino,
nel 1425, la decorazione della cappella di famiglia. L'artista ha dipinto
alcuni pannelli prima di chiedere a Masaccio, suo allievo, di aiutarlo.
Fra il 1425 ed il 1427 Masaccio rivoluziona lo stile pittorico del tempo.
Invece di applicare le convenzioni stilistiche stabilite da Giotto più
di un secolo prima, come la maggior parte dei suoi contemporanei avevano
fatto, rappresentando le persone quasi immobili nei loro movimenti su
sfondi fantasiosi, Masaccio dà ai propri personaggi l'espressione
e i gesti della gente di strada rendendole figure convincenti e dipingendo
sfondi reali; poi nel 1428, è chiamato a Roma
dove muore, lasciando la Cappella Brancacci, incompleta.
I Brancacci si rendono conto dell'unicità della cappella, che rimane
come Masaccio l’ha lasciata. E’ rimasta, anche dopo l'esilio
della famiglia nel 1436, il modello di tutti i capolavori del Rinascimento.
Si racconta che il naso rotto di Michelangelo derivi
da una discussione che egli ebbe con Pietro Torrigiani, dopo averlo deriso
perché intento a copiare gli affreschi nella cappella. Completata
da Filippino Lippi, agli inizi del 1480, la cappella offre un'occasione
unica per confrontare gli stili del primo, del medio e dell'alto Rinascimento.
Entrando in religioso silenzio, sulla destra troviamo la Tentazione
di Eva di Masolino, mentre sulla sinistra
è la Cacciata dal Paradiso Terrestre
di Masaccio. Subito si possono confrontare gli stili
pittorici differenti. I pannelli sottostanti sono di Filippino
Lippi; mentre
il grande pannello sulla destra, che rappresenta San Pietro che guarisce
uno storpio è opera di Masolino anche se… qualcuno asserisce
che lo storpio è di Masaccio, come lo sfondo che è sicuramente
di Masaccio. La sottostante Crocifissione di San Pietro,
è di Filippino Lippi e la persona rappresentata
di profilo sulla sinistra dell'affresco è il Botticelli,
maestro di Lippi.
Di Masolino è la Predica di San Pietro,
mentre di Masaccio sono gli affreschi che rappresentano
Il Battesimo dei Neofiti, La Distribuzione
delle Elemosine e la Morte di Anania,
San Pietro Risana con la sua Ombra
gli Infermi. Riferisce il Vasari che il
giovane all'estrema destra del gruppo centrale di figure ne Il
Pagamento del Tributo di Masaccio, prima
grande scena monumentale di tutto il Rinascimento, sia Masaccio stesso.
Il pannello sottostante raffigura San Pietro in Cattedra
e La Resurrezione del Figlio di Teofilo sono
le ultime scene dipinte da Masaccio e ultimate da Filippino Lippi. Sempre
il Vasari afferma che la figura all'estrema destra nel San Pietro in Cattedra
sia Filippo Brunelleschi.
SANTA MARIA MAGGIORE
Santa Maria Maggiore è una delle chiese più antiche di Firenze, anteriore almeno all'Undicesimo secolo. Secondo il Vasari fu ricostruita nella seconda metà del secolo Tredicesimo, con forme gotiche. L'interno ogivale, a tre navate divise da arcate a sesto acuto sostenute da pilastri a sezione quadrata, termina con tre cappelle a fondo piano. Prima è stato ristrutturato da Gherardo Silvani, forse seguendo un'idea di Bernardo Buontalenti, e poi rimaneggiato nel settecento. L'aspetto in cui si presenta oggi è dovuto ai restauri eseguiti fra il 1912 ed il 1913, che hanno eliminato le aggiunte barocche ed inserito il nuovo altare maggiore e la cappella a destra di questo. Le opere conservate nella chiesa sono varie. Fra queste l'altare della cappella a sinistra della maggiore, una Madonna in trono col Bambino, bassorilievo ligneo del Tredicesimo secolo e attribuito a Coppo di Marcovaldo e Santa Rita da Cascia, una tela dipinta da Primo Conti nel 1949.
SS. APOSTOLI
La chiesa dei SS. Apostoli, situata
in piazza del Limbo, così chiamata perché
vi si trovava il cimitero dei bambini morti senza ricevere il battesimo,
risale alla fine dell'Undicesimo secolo. E’ stata rimaneggiata nel
secolo Quindici - Sedicesimo, e ripristinata nel 1930-38.
La facciata è romanica, ma il portale cinquecentesco,sembra sia
di Benedetto da Rovezzano. Una leggenda riportata nell'iscrizione
latina a sinistra del portale, afferma che la chiesa è stata fondata
da Carlo Magno e consacrata dall'arcivescovo Turpino,con
testimoni Rolando e Oliviero. L'interno
è stato riportato al suo originario aspetto, conservando le cappelle
laterali del '400 e del '500. Esso è diviso in tre navate da colonne
in blocchi di marmo verde di Prato, con capitelli compositi. La copertura
è a capriate a vista con l'originaria decorazione policroma del
Dodicesimo o quattordicesimo secolo. Le piccole finestre in alto, decorate
negli strombi, sono romaniche. Lascia piacevolmente incantati perché
ammirati l’abside semicircolare che conclude la chiesa.
SANTA MARIA NOVELLA E GLI «ONCE AL SUR»
Era il 29 dicembre 1973 e desideravo passare il capodanno
con i miei figli; Velardi mi accompagnò alla stazione che tra tutte
le stazioni ferroviarie italiane di recente costruzione, Santa
Maria Novella è uno dei complessi di maggior rilievo
architettonico.
Il primo edificio, Leopolda, risale al 1844
ed è stato progettato da Robert Stephenson, figlio
dell’inventore della ferrovia.Quattro anni più tardi è
stata realizzata la seconda stazione, Maria Antonia,
spostata all’interno delle mura cittadine. Delle due stazioni, tuttavia,
non resta oggi alcuna traccia: la Maria Antonia è stata demolita
per far posto all’edificio attuale. Nel 1932 infatti è bandito
il concorso nazionale per il nuovo Fabbricato Viaggiatori,
vinto dal Gruppo Toscano dell’architetto
Giovanni Michelucci e composto da Baroni,
Berardi, Gamberini, Guarnieri,
Lusanna. La nuova stazione è inaugurata il 30
ottobre 1935. Il grande atrio, coperto da una cascata di vetro, immette
nella galleria di testa che attraversa l’intero complesso. I rivestimenti
esterni riprendono i materiali ed i colori della città, instaurando
una sensazione di continuità con il contesto urbano circostante.
All’interno si trovano opere d’arte di valore, come le sculture
di Italo Griselli e le pitture di Ottone Rosai
e Mario Romoli.
Il complesso, che si affaccia sulla chiesa di Santa Maria Novella, è
un capolavoro del razionalismo ed una delle migliori espressioni dell’architettura
italiana moderna.
E’ una bellissima giornata, il sole la fa da padrone, nella piazza
antistante la stazione un gruppo teatrale: «Il gruppo argentino
Once al Sur» de la mama argentina,
una comunità composta di otto persone, gli attori provengono dal
Teatro Indipendente Argentino ed hanno iniziato
la propria attività come «Once al sur» nei
sobborghi di Buenos Aires, del quale hanno preso il nome, si
esibiscono all’aperto nella piazza, circondati da una folla di persone
che seguono la performance, che si intitola «La marcia»
tratta dallo spettacolo che stanno portando in tutta Italia: «Buenos
Aires oj», in silenzio. Una cosa che non ho più
visto nella mia vita, sono in otto ma durante «La marcia»
sembrano ottanta, ottocento, otto milioni di persone. Mentre marciano
parlano tra di loro e come sfugge una parola contro il governo, chi ha
parlato male cade a terra ucciso a bruciapelo da un cecchino, ne dicono
di tutti i colori contro un governo che non da la possibilità di
sentirsi liberi, tanto che la pièce si conclude con un soldato
che cadendo morente esclama: «Soltanto por pensar!…».
Gli applausi e le richieste di bis sono esaltanti, tutti i presenti si
spellano le mani, comincia, improvvisamente a piovere, ma gli spettatori
diventano sempre più numerosi e la voce sempre più tonante
che chiede il bis, che furono quattordici.
Ho
perduto il treno, ma non mi dispiace, mi presento al regista e parlo a
lungo con loro, ritorniamo insieme a Roma, perché
il 30 avrebbero tenuto lo spettacolo al Teatro De Tollis.
Passiamo insieme il Capodanno e la Befana, viviamo, nella mia casa, e
parliamo tanto di teatro e di politica.Tutti e otto insegnano all’Accademia
del Teatro di Buenos Aires e percepiscono un dollaro al
giorno per questo giro propagandistico che stanno compiendo sia in Italia
che in Europa. Al «De Tollis», durante la terza replica, una
ragazza del pubblico si alza, sale sul palcoscenico dove si sta svolgendo
una scena cruenta, stanno torturando un soldato insubordinato, e grida,
afferrando la mano del torturatore: «Basta! Non vede che non
sa niente? Se lo avesse saputo lo avrebbe già detto!».
La sera, a casa, leggo agli amici argentini un passo del «Metello»,
quando esce dal carcere e promette a Ersilia che «là
dentro non ci ritornerò più», e la donna risponde:
«Non lo dire più, queste parole le ho sentite già
molte volte dette dal mi’ babbo». Così il mio
Pratolini, andò in Argentina
nella sacca di Yago Gui Gui, che lo volle in regalo.
Bibliografia
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Reno Bromuro è nato a Paduli, in Campania, nel 1937. E' stato un poeta, scrittore, attore e regista teatrale. Nel 1957, a Napoli, ha fondato il Centro Sperimentale per un Teatro neorealista. Ha fondato nel 1973 (di fatto) l'A.I.A. Associazione Internazionale Artisti "Poesie della Vita", e, come critico letterario, ha recensito molti poeti italiani e stranieri. Si è spento nel 2009, qualche anno dopo averci dato l'opportunità di collaborare con lui. Noi di Letteratour lo ricordiamo con affetto qui.
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