"Non ci sono confini, non ci sono misure, non c'è un inizio, non c'è una fine." Marcello Kalowski e il suo La scuola dei giusti nascosti
gen 032021Marcello Kalowski, con il suo La scuola dei giusti nascosti, consegna al lettore un libro dallo stile elegante nella sua semplicità e dalla trama compatta, che si snoda intorno alla storia di un'amicizia, in pieno regime fascista, di due giovani vite. Originale il ruolo conferito alla scuola, mezzo salvifico, capace di rallentare il meccanismo della macchina antisemita. Conosciamo meglio il suo pensiero e il suo romanzo, attraverso questo interessante confronto, che gentilmente ci concede.
Perché la scelta di utilizzare la scuola come strumento di salvezza?
L'argomento della shoah è al centro di molti scritti ed è stato trattato in diversi modi. Questa realtà mi ha parecchio condizionato durante la stesura del libro, creandomi una sgradevole sensazione di disagio. "Cosa penserà la gente, quando entrerà in libreria e troverà l'ennesimo libro sulla shoah?" Una domanda costante, un pensiero fisso, che mi ha accompagnato per tutto il periodo in cui ho dato vita al romanzo, tanto da divenire il nucleo del volume stesso. Io non sono uno storico, ma vivo nella ferma convinzione che i libri abbiano il sacrosanto dovere di divulgare la conoscenza. Tale certezza fa sorgere in me una domanda: quale uso fare di questa conoscenza? Da qui parte la necessità di porre la scuola come "momento" centrale del libro. In qualsiasi comunità, quando si decide di imporre dei codici per limitare l'accesso a tale collettività o che servano per escludere chi non è ritenuto degno di farne parte, si inizia proprio coinvolgendo la cultura, trasformandola in un elemento dispregiativo, ma allo stesso tempo fondamentale. Basti pensare al Manifesto degli scienziati razzisti, pubblicato tra settembre e ottobre del 1938 e firmato da alcuni dei più celebri scienziati italiani, divenendo la base ideologica e pseudoscientifica della politica razzista dell'Italia fascista. Quando gli uomini di cultura dimenticano la loro missione, passando dalla parte dell'arroganza e dell'ingiustizia, diventano inevitabilmente pericolosi, insieme alla cultura stessa. Sono pochissime le voci rilevanti che si sono opposte al fascismo e buona parte dell'Italia intellettuale si è tristemente allineata alla politica del fascio. L'urgenza di dare tale impostazione a La scuola dei giusti nascosti, nasce proprio dalla voglia di mettere la cultura dalla parte dei giusti. Fare memoria è un compito molto complicato.
Cosa significa,"fare memoria è molto complicato"?
La nostra storia attuale è figlia di una narrazione del passato, ricca di omissioni e fare memoria significa mettere in discussione quella che banalmente viene definita la nostra identità, presente compreso e questo richiede una buona dose di coraggio. Ancora oggi, in ambiente scolastico, si affrontano con non poche difficoltà le problematiche legate alle leggi razziali e tutto quello che concerne l'antisemitismo, è relegato alla giornata del 27 Gennaio. Fondamentalmente non si è mai fatta un'analisi rigorosa e transigente della realtà fascista. Il messaggio che in qualche modo passa, è relativo alla crudeltà nazista, ma in merito a quella fascista, l'elevamento all'ennesima potenza della malvagità delle leggi razziali mussoliniane, manca quasi sempre. Quello che molto spesso si dice è che, certo, la politica antisemita è stata largamente adottata in Italia, ma inizialmente non aveva lo scopo di far scorrere sangue ebraico. Questo è accaduto con l'arrivo dei nazisti. Quella italiana voleva "solo"?! essere discriminazione, poi i tedeschi hanno peggiorato le cose. Quindi colpa loro, non nostra. Se io fossi il Ministro dell'Istruzione, dedicherei sempre l'apertura dell'anno scolastico al giorno in cui furono promulgate le leggi razziali, il 5 settembre del 1938, semplicemente per ricordare ai giovani, che chi era ebreo, non ha potuto godere di quel primo giorno.
Come si fa a sensibilizzare realmente i giovani verso la shoah?
A tal proposito, si incontrano e si scontrano idee differenti e contrastanti. La memoria non è un semplice tentativo di far rivivere il passato, opponendosi al senso di caducità dovuto al trascorrere del tempo. Quando io dico che è sbagliato affidarsi ai giorni della memoria, è perché fondamentalmente tutto diventa usuale e contribuisce ad allontanare dal punto di vista temporale, le stesse vicende dalla storia. Quello che urge far comprendere ai giovani, è che quegli eventi, non sono stati una sorta di eclissi della civiltà, ma l'esito di precisi momenti storici, e che quegli esiti continuano a incombere su di noi e sulle nostre scelte. Le epoche passano, trascorrono e non fanno sconti a nessuno e tutto sommato è anche giusto che gli eventi si allontanino nel tempo. L'importanza risiede nella capacità di non trasformare la storicizzazione in banalizzazione, ma allo stesso tempo non va considerata la shoah come una sorta di sacrario-braciere sempre acceso e il compito della memoria come quello di alimentare perennemente questa fiamma. Bisogna imparare a contestualizzare, perché l'orrore non ha confini. Auschwitz non deve essere considerato un'unità di misura per disegnare i limiti delle atrocità. Una tragedia è la deportazione ebraica, altrettanta tragedia è la gente che annega nel Mediterraneo. Non dobbiamo fare paragoni, altrimenti il rischio di banalizzare è altissimo. Io non sono stato una vittima diretta della crudeltà antisemita, ma tramite mio padre, sopravvissuto ai campi di concentramento, ne ho avuto comunque un'esperienza profonda. Un uomo uscito vivo da quell'orrore, bloccato in Italia da una tubercolosi ereditata appunto dalla terribile esperienza e che comunque ha trovato il coraggio di rifarsi una vita o di tentare di rifarsi una vita. Purtroppo, però, lo spettro delle atrocità viste e subite lo hanno sempre accompagnato e io avevo appena dodici anni, quando lui ha avuto il suo primo reale crollo, con una depressione che lo ha seguito fino alla morte. Non ci sono confini, non ci sono misure, non c'è un inzio, non c'è una fine.
MARCELLO KALOWSKI, nato a Roma nel 1954, ha lavorato a lungo per la Hebrew Immigration Aid Service, organizzazione ebraico-americana che fornisce assistenza ai profughi ebrei. Ha esordito in narrativa con il romanzo Il silenzio di Abram. Mio padre dopo Auschwitz, edito da Laterza.